_news #119
08 Luglio 2008
Esiste, in Italia, una questione settentrionale?
di Achille Colombo Clerici
Da una conferenza tenuta a Zurigo all’Istituto Svizzero per i rapporti culturali ed economici con l’Italia
Introduzione

La questione meridionale italiana, da quasi un secolo al centro del dibattito storiografico
e politico nel nostro Paese, può sintetizzarsi (se mi è permesso, per economia del discorso, ricorrere a tesi ed enunciazioni), nel dilemma se debba pensarsi ad un Sud sottosviluppato “come condizione” dello sviluppo nel Nord o piuttosto ad un Sud sottosviluppato nonostante il progresso del Nord.
Parallelamente e correlativamente una questione settentrionale potrebbe oggi, per grandi linee, affacciarsi in questi termini problematici: se ed in quale maniera il Nord possa, nell’interesse del Paese, concorrere nella sfida della competizione internazionale nonostante il sottosviluppo del Sud, o se possa da questo in qualche modo risultare condizionato.
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Nella recente campagna elettorale per le votazioni politiche del 2008 entrambi gli schieramenti hanno convenuto sulla riconoscibilità di un certo disagio, di un malessere del Nord Italia a proposito di una sua capacità autopropulsiva sul piano di un adeguato sviluppo: soprattutto alla luce della sfida internazionale da affrontare.
Alcuni sostenendo un’idea più avanzata sul piano del “federalismo”, soprattutto in campo fiscale; altri più sfumatamente parlando di “regionalismo”, in aderenza sostanzialmente all’idea di una maggiore autonomia dell’ente locale.
Ma poi inevitabilmente nelle risposte degli uni e degli altri sono emerse tutte le tematiche del dibattito generale: dai principi di interdipendenza, di sussidiarietà, di solidarietà, al policentrismo ed al cosmopolitismo.
Il tutto inquadrato in un sistema che sia in grado di conciliare le esigenze di autogoverno–partecipazione locale, con la salvaguardia del principio di unità-solidarietà nazionale.

Valutazione - effetti

C’è alla base della questione settentrionale il problema di un’Italia a deux vitesses, come dicono i francesi.
Un Settentrione, progredito e dinamico ed un Meridione caratterizzato da una originaria arretratezza economico–strutturale e da un ridotto dinamismo economico come è testimoniato, tra l’altro (attesi i recentissimi dati ISTAT), oltre che dal differente livello di capacità fiscale pro capite, dal più elevato numero di abitazioni occupate direttamente dai proprietari (indice di una società statica). Caratteri questi che la politica del welfare state (in versione italiana) praticata in tutti questi anni nel nostro paese non è stata capace di rettificare se non in parte.
L’assistenzialismo centralistico verso le regioni del Sud ha dato luogo infatti a ingenti trasferimenti finanziari alle famiglie senza la contestuale creazione di nuovi posti di lavoro.
Si è in tal modo sviluppato nel mezzogiorno un modello di società dei consumi senza una corrispondente produzione.
Lo Stato Italiano ha così sottratto ingenti risorse finanziarie agli investimenti in infrastrutture di servizio, tanto al Nord, quanto al Sud; dove peraltro gli investimenti realizzati non hanno potuto innestarsi in un efficiente e funzionale sistema socio-economico di base in grado di consentirne la piena esplicazione della potenzialità.
Una Italia a due velocità dunque, dove il sistema dello Stato centralizzato ha teso sempre alla unificazione del trattamento delle situazioni locali differenti. Sul piano istituzionale, culturale, fiscale, del regime del lavoro. La logica è stata quella di rendere più ricche le regioni più povere; mentre sarebbe stato più corretto equiparare i cittadini delle diverse regioni, sul piano della fruizione dei servizi.
E certamente, come ricordava Carlo Cattaneo, non c’è modo migliore per evidenziare le diversità, che trattare in modo eguale due situazioni differenti. E’ come imporre un abito della stessa taglia a due uomini l’uno grande e l’altro piccolo; non va bene né all’uno, né all’altro.
La storia è nota. I padri fondatori dello Stato italiano, al tempo della unificazione, (lo ricorda Sabino Cassese nel suo volumetto “Lo Stato introvabile”) erano inclini al decentramento. Ma lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale.
Venendo ai nostri giorni, nel nostro Paese attorno al '92 la situazione di crisi causata da una ventennale politica del rinvio delle decisioni sui nodi cruciali, avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro in catastrofe economico-finanziaria se non fosse stato per la straordinaria vitalità del sistema economico-istituzionale (la miriade di imprese medio piccole), e per una sorta di “religiosità civile” fatta di lavoro, di risparmio e di senso di responsabilità (mostrato anche dai sindacati dei lavoratori) che hanno impedito al sistema di degenerare.
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Quanto agli effetti sul piano internazionale, il Centralismo in Italia oltre che deprimere Nord e Sud ha portato anche alla perdita di un ruolo Europeo.
Perché esso ha condotto non all’incremento, bensì alla riduzione delle eccellenze nazionali, quanto mai necessarie nella competizione internazionale.
Non diversamente va letto quello che può ritenersi l’organigramma di organi, istituzioni ed agenzie dell’Unione Europea, dove, pur seguendosi il modello della “capitale reticolare” (delocalizzazioni e decentramenti di funzioni e di rappresentatività), all’Italia è riservata la posizione di fanalino di coda.
Lo sviluppo del pensiero più recente

Certo è che da dieci anni a questa parte il problema dell’Italia a due velocità, che si chiami federalismo, piuttosto che regionalismo, è diventato la questione settentrionale del nostro Paese.
Già nel 1990/1992 la fondazione Giovanni Agnelli di Torino diretta dal prof. Marcello Pacini nel volume “La Padania, una regione italiana in Europa” apre su basi scientifiche un discorso ampiamente “avvertito” da quell’opinione pubblica che, uscendo dall’interna riflessione di illuminate minoranze, scopriva l’indifferibile urgenza del federalismo.
Tanto che, nel 1994 lo stesso prof. Pacini, nel documento della Fondazione sul tema “Scelta federale ed unità nazionale” avanzava l’ipotesi di suddividere il territorio nazionale (riaggregazioni regionali) in 12 macro-regioni (contro le attuali 20) secondo criteri di copertura finanziaria o fiscali/territoriali.
Nel frattempo alcuni critici cavalcavano l’attacco allo Stato centralista ed interventista; accusandolo di aver profuso invano le proprie risorse dissanguando le finanze pubbliche nel buco nero, nel pozzo senza fondo del “Sud assistito”.
L’antistatalismo liberista e federalista si trasforma in antimeridionalismo: la questione del Nord è la questione del suo sfruttamento da parte del Sud “parassita”.
La stessa Chiesa cattolica, nel 1996, con il documento della “Commissione giustizia e Pace” della Diocesi di Milano ragiona sull’introduzione di un “regionalismo forte”, di un “federalismo solidale” che poggino su una nuova cultura delle istituzioni (il passaggio dal cittadino utente-cliente al cittadino che conosce, decide, controlla: dal costume della passività, all’etica della responsabilità) e che mirino ad edificare la sovranità dal basso secondo i più genuini principi della democrazia partecipata. Una sorta di società amicale nella quale i poteri della cittadinanza siano da tutti esercitati nell’equilibrio dei diritti e dei doveri e si creino le condizioni effettive per un incontro efficace tra risorse e bisogni
Le categorie economiche e le parti sociali, per parte loro, avvertivano l’urgenza di una riforma istituzionale in campo tributario, rilevando l’esistenza di vaste aree di sperequazione sul piano non solo geografico, ma anche dei diversi settori economici, e dei differenti livelli di responsabilità sociale e personale.
Ricordo un nostro convegno di ASSOEDILIZIA nell’ottobre del 1995, nel quale l’allora Sindaco di Milano, Marco Formentini ed il Vice Presidente del Senato Marcello Staglieno posero fortemente la questione di una riforma fiscale in senso federalistico, denunciando il sistema dei cosiddetti trasferimenti statali gravemente punitivo della proprietà immobiliare, colpita dall’I.C.I. (Imposta Comunale sugli Immobili) in ragione inversamente proporzionale ai tagli dei trasferimenti stessi dallo Stato ai Comuni medesimi. L’11 ottobre dell’anno scorso, parimenti Assoedilizia tenne, con l’Università degli Studi di Milano, un Convegno sul tema del federalismo fiscale nel quale sostanzialmente si prese atto di alcune preoccupanti distorsioni, in sede di attuazione del principio, soprattutto a danno dei contribuenti ICI.

I fondamenti culturali – le diversità italiane

Certamente, la questione non va posta in termini di rivendicazione culturale o peggio campanilistica.
Anche se, sul piano culturale sociale ed etico, esistono ampie sfere di differenziazione tra Nord e Sud.
D’altronde si può dire, come qualcuno sostiene, che l’Italia si presenta non a due, bensì a tre, ed a quattro velocità.
Esiste una differenziazione culturale: cioè di carattere, di costume, di mentalità. C’è una linea di demarcazione fra gli italiani che gravitano su Roma e quelli che gravitano su Milano.
I primi, provenendo per lo più dalle regioni centro-meridionali non diventano romani. La romanità è un carattere poco contagioso e comunicabile: è avvezza alla chiusura secolare propria di chi riceve, per usare l’aforisma di Aristofane, “nottole ad Atene” e dipende da una burocrazia legata ad un potere imperituro: quello della Chiesa.
Chi approda a Roma tende a statalizzarsi.
Chi gravita su Milano tende a milanesizzarsi (Montanelli): viene conquistato cioè da quella capacità della città ambrosiana di far sentire a casa propria chiunque vi operi, perché lo fa sentire attivamente coinvolto nel processo di costruzione del futuro della città e del paese. Si tratta, nel sistema Italia, di due culture diverse non antagoniste, ma complementari: per cui non può pensarsi di ridurre la complementarietà all’omogeneità.
La civiltà comunale imperniata sul popolo e caratterizzata dalla partecipazione e dalla solidarietà privata; e la civiltà del principe imperniata sulla figura del sovrano, che si esprime nei caratteri dell’autorità e dell’assistenzialismo pubblico (regalie, grazie, condoni, proroghe).
A Milano e nel settentrione si è affermata la mentalità giansenista volta al conseguimento del “risultato” e produttrice di una tensione all’efficienza (nell’assunto morale che l’uomo giusto è colui che ottiene il successo). Mentalità che ha condotto i nostri concittadini ad occuparsi, secondo la definizione datane dell’amico Giorgio Rumi, del proprio “particulare”: cioè dei propri affari, delle proprie cose di famiglia.
E certamente una società fortemente ripiegata sulla cura dei propri interessi difficilmente riesce ad esprimere figure politiche o legate alla gestione degli interessi generali.
Sicchè, mentre il meridione “esporta” in Italia prevalentemente burocrazia e politica, il settentrione fornisce prevalentemente “attitudini” economiche anche perché, come si è sovente dimostrato, chi è un buon uomo d’affari difficilmente è altrettanto buon politico o buon amministratore pubblico. Questo almeno è quanto è avvenuto prevalentemente nel corso della storia politica dell’Italia post-unitaria.
Quindi, già le specificità culturali e di mentalità (dovute alle richiamate ragioni di carattere storico) la dicono lunga sulle diversità tra Nord e Sud.
Ma, esiste anche una differenziazione etico-sociale: che, per la verità, non è strettamente legata a fattori territoriali; anche se (e lo dico sommessamente e cautamente) qualche differenza, su questo piano, sussiste tra Nord e Sud. Ma essa non è certamente legata al maggior o minor grado di senso etico delle popolazioni. Semmai alla maggiore o minore efficienza del sistema istituzionale e sociale.
In altre parole c’è un’Italia ligia alle leggi, fedele al dovere fiscale, osservante i principi della reciproca convivenza. E c’è un’Italia sommersa che non solo si arrangia lavorando in nero (5 milioni di lavoratori), evade le tasse, e fa in tal modo già concorrenza a chi non si permette tali comportamenti. C’è un’Italia che non paga deliberatamente i servizi pubblici, con l’accondiscendenza di un apparato pubblico che sovente confonde il welfare state con il chiudere un occhio sul rispetto dei doveri sociali, da parte dei cittadini, per permettere loro di “sopravvivere” (insomma, la legittimazione dell’arte di arrangiarsi).
C’è soprattutto una Italia alla macchia che gestisce o è gestita dalla criminalità grande, piccola, occasionale o legata al territorio, che costituisce un sistema anomico dentro il sistema istituzionale.
Situazioni tutte che costituiscono sacche di malcostume, di privilegio, di sperequazione, di fronte alle quali il cittadino osservante la legalità non può che ribellarsi.
Tutto un mondo di asocialità e di illegalità che si autoalimenta progressivamente soffocando il mondo della legalità.
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Tanto che il cittadino “a regime” si sente oggi sempre più insicuro e non protetto; sempre meno difeso dallo Stato. Non solo sul piano della giustizia distributiva e dell’equità, ma anche sul piano fisico, della sicurezza personale e della certezza dei diritti.
La questione della giustizia è sempre stata il paradigma dei grandi processi storici. Ed oggi, la questione settentrionale rischia, per traslato, di identificarsi con la questione morale del paese, trasformandosi nell’ansia di rinnovamento, di giustizia e di democrazia, che si avverte nel paese; una democrazia che non sia solo legalità, ma si regga sull’equilibrio tra libertà ed equità, tra sviluppo e giustizia.

Il caso della Lombardia

Emblematico è il caso della Lombardia.
Vero gigante istituzionale e socio-economico questa regione d’Italia è fra le prime dieci regioni europee quanto a PIL.
E’ al primo posto in Italia ed al secondo in Europa (dopo il Baden Württemberg) quanto a densità industriale. Una delle quattro regioni motori d’Europa, insieme alla Catalogna, al Rhône Alpes, ed al Baden Württemberg appunto.
Sul versante nazionale essa produce 1/3 delle esportazioni nazionali ed ¼ delle entrate fiscali erariali e rappresenta la vera locomotiva economica del Paese come è stato detto.
Sul fronte internazionale, per la sua collocazione geografica e per la posizione economica, ricopre un ruolo centrale nei rapporti fra l’Italia e l’Europa: tanto da essere considerata la vera “cerniera” fra il nostro Paese ed il mondo europeo.
Ma, per reggere il passo della sfida internazionale, occorre la competitività sul piano della funzionalità e della attrattività. Anche perchè, se vogliamo che Expo 2015 divenga fattore di crescita anche dopo la chiusura dei battenti dell’Esposizione, è necessario che questo evento trovi già predisposto un sistema che possa beneficiare dello slancio propulsivo che ne deriva, e non cada nel vuoto.
E solo una efficiente rete infrastrutturale di servizi pubblici (soprattutto nel settore della mobilità delle persone, delle merci e delle informazioni; nei settori della ricerca, e dei servizi alle imprese, nel settore dell’offerta culturale e sociale alle persone) può assicurare adeguate risposte.
Ma, se prendiamo ad esempio il campo dei trasporti, troviamo che la nostra regione è al 34° posto nella graduatoria europea.
Grazie al fatto che, pur sopportando circa il 20% del carico gravitazionale a livello nazionale, le opere pubbliche in termini di strade e di rete ferroviaria rappresentano poco meno del 10% del totale del paese; risultando quindi nettamente inadeguate al fabbisogno regionale arretrato ed insorgente.
- Ma anche nel campo dell’edilizia residenziale pubblica c’è una forte stasi degli investimenti; da quando lo Stato si è andato ritirando progressivamente da questo suo compito istituzionale.
- Occorre una maggiore autonomia finanziaria ed istituzionale dallo Stato.
- Infatti, per l’adeguamento infrastrutturale della regione lo Stato risponde con finanziamenti diretti assolutamente non proporzionali, né alle esigenze, né al gettito fiscale locale: mentre si avanzano proposte di istituire “tasse allo scopo” le quali, lungi dal realizzarsi in regime di invarianza del carico fiscale per il contribuente, andrebbero inevitabilmente ad aggravare una pressione tributaria già oggi gravosissima.
D’altro lato, anche la progettazione dei grandi servizi in rete nazionale, suppone tali e tante interferenze in sede decisionale da parte dello Stato, degli enti parastatali e degli enti territoriali ed ambientali competenti nelle diverse gestioni implicate, sviluppando la politica dei veti per la gestione del consenso, (es. Ferrovie dello Stato – ANAS – Trasporti Alta Velocità – Comunità locali) da rendere improcrastinabile una radicale riforma in senso federalistico dei poteri decisionali in materia.
Anche perché il centralismo assistenzialista dello Stato ha altresì condotto a distribuire e decentrare la rappresentanza istituzionale (le capitali in rete) ad esempio, nel campo del controllo, non secondo il criterio del riconoscimento delle eccellenze locali, bensì sulla base, presumiamo, dell’intento o di assecondare aspirazioni locali o di creare elementi di vitalizzazione artificiosa delle realtà periferiche; quando addirittura non si è pensato di mantenere questa rappresentanza nella capitale, per motivi di comodità (es. Organismo per il Controllo delle ONLUS, c.d. Autorità per il volontariato). In tal modo in Lombardia non è stata localizzata la sede di alcuna Agenzia-Autorità nazionale; se si esclude quella per l’Energia.
E’ ciò che è emerso anche nel corso del Convegno “Terre Lombarde, nella tradizione e nella prospettiva” promosso, oltre che da Assoedilizia, dalla Associazione AMICI di Milano, e dall’IRER–Lombardia, nel corso del quale è stata posta l’istanza di ragionare, nell’ottica europea, in termini di regioni culturali omogenee come punti di forza nel riequilibrio dei rapporti interni ed internazionali delle singole regioni amministrative. E’ il tema di fondo di quell’impegno civile che da oltre 15 anni ci siamo assunti, con la costituzione della Associazione culturale Carlo Cattaneo di diritto Svizzero con sede in Lugano, cui ho dato vita insieme ad un gruppo di fondatori di parte italiana, convinti che una collaborazione culturale fra le due aree potrebbe senz’altro giocare un ruolo positivo nella costruzione del futuro europeo.

Gli attuali orientamenti statali

La questione Settentrionale in Italia, intesa come capacità di competere delle nostre regioni sul piano internazionale, pur presente nella coscienza del Paese, è ufficialmente sconosciuta allo Stato italiano.
Il documento di Programmazione economico-finanziaria, per gli anni 2009/2013 presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché dal Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica e dal Ministro delle Finanze, dedica un ampio capitolo alla politica di sviluppo del meridione dichiarando programmaticamente che lo “sviluppo del Mezzogiorno è la grande priorità, la “missione” della politica economica italiana: così come lo è stato il raggiungimento dei parametri di convergenza per la moneta unica europea”.
Nulla dice circa la competitività delle aree socio–economiche del paese; limitandosi a prevedere agevolazioni fiscali per distretti ed a trattare della competitività dei prodotti sul piano internazionale (valorizzazione del made in Italy) . Quasi che quest’ultima si possa conseguire senza la competitività del sistema-paese, nel quale la competitività delle singole regioni trainanti è il pilastro su cui deve poggiare l’efficienza complessiva italiana.
Miopemente si dà, in altri termini, per scontato che le regioni forti possano e si debbano quindi “arrangiare” da sé, dentro il sistema-paese, per conseguire quella competitività che nessuna politica nazionale si preoccupa neppure di ipotizzare.
Ancor oggi, nel I° decennio degli anni 2000, è totalmente ribaltata la logica nella quale si dovrebbe ragionare nell’interesse dell’Italia intera.
Infatti si parte dall’assunto che, affinchè il Paese prosperi, il meridione deve crescere. Ma si arriva a concludere che, siccome le imprese non stanno in piedi da sole, bisogna aiutare finanziariamente e fiscalmente l’economia e le imprese meridionali, privilegiandole fiscalmente rispetto alle altre imprese del Paese.
Comunque non è sacrificando il Nord che si favorisce la crescita del Sud.
C’è viceversa l’esigenza di una politica di potenziamento del Nord Italia quale condizione, attraverso il forte aggancio alla realtà internazionale che ne consegue, dello sviluppo e del progresso anche del mezzogiorno. Il progresso del Nord deve ridondare a vantaggio del Sud.
Un vero patto Nord/Nord, nell’interesse del Paese. Se il settentrione progredisce rimanendo fortemente agganciato all’Europa, tutta l’Italia ne beneficia; e ciascuna parte del Paese cresce organicamente sviluppando le proprie peculiarità.
L’esigenza di una sinergia fra le varie regioni settentrionali nella ricerca di un federalismo possibile, si è evidenziata peraltro in una ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano qualche tempo fa (sono stati intervistati 70 “opinions leaders” lombardi sulle attese nella nuova legislatura).
Un federalismo che, ritengo, potrà conseguirsi anche in forma imperfetta e che certamente costituirà l’occasione storica per modernizzare la società italiana nel suo complesso e non potrà esaurirsi in un semplice decentramento di funzioni.
Esso dovrà implicare un più generale movimento dallo Stato alla società, attraverso un rafforzamento della società civile. Meno Stato, più società civile, più mercato. E dovrà costituire un vero passaggio culturale; un cambio di mentalità. Ma, nel contempo, tutto ciò non dovrà rappresentare una scusa trincerandosi dietro la quale lo Stato possa sottrarsi (se rimane inalterata la pressione fiscale) ai suoi compiti istituzionali storici in materia di welfare.

Riflessioni finali: Un’ipotesi di proposta in tema di federalismo fiscale

Vorrei dunque delineare lo scenario di fondo nel quale inquadrare conclusivamente il discorso di un possibile federalismo fiscale.
A tal fine ritengo utile ricordare alcuni dati emersi dalle ricerche compiute dal Centro Studi di Assoedilizia e pubblicati nel corso dell’anno 2007 in varie riprese sul Sole 24 Ore. Dati dai quali emergono alcune anomalie di fondo del sistema Italia rispetto alla generalità degli altri Paesi europei;
1) Anzitutto il nostro Paese presenta un rapporto particolarmente squilibrato tra il prelievo fiscale locale e quello erariale.
E’ ben vero che una costante nell’impostazione fiscale dei paesi a struttura centralizzata è rappresentata da un maggior livello del prelievo centrale rispetto a quello locale. Ma la situazione italiana è di molto lontana da quella che si registra mediamente nel resto dell’Europa.
Il 95% dell’intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5% (la metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato direttamente dagli enti locali in virtù di una autonomia impositiva ufficialmente riconosciuta (per quanto riguarda sia la istituzione, sia la gestione delle imposte).
D’altra parte, la spesa pubblica sostenuta dagli enti locali raggiunge il 27% di quella complessiva: livello questo superiore di oltre il 50% rispetto a quello registrato sempre negli altri stati europei a struttura centralizzata.
Il nostro è dunque un sistema di finanza locale derivata, decisamente basato sul meccanismo dei trasferimenti, degli investimenti diretti, dei finanziamenti erogati dallo Stato centrale, e della compartecipazione alle imposte erariali.
2) Altra anomalia del sistema fiscale italiano rispetto a quelli del resto dell’Europa (anche questa oggetto di studio da parte di Assoedilizia) è il rapporto invertito, tra il gettito delle imposte dirette e quello delle imposte indirette.
Il primo supera l’altro del 20%; mentre in Francia è l’opposto: il secondo supera il primo di circa il 30%; in Germania di quasi il 50%; in Spagna del 15%; in Portogallo del 100%.
La questione non si riduce ad un mero rilievo statistico, ma presenta riflessi pratici di grande portata.
Semplificando concettualmente, possiamo dire che nelle imposte dirette rileva la capacità contributiva legata alla produzione, più che al consumo del reddito. Esse, in altri termini, colpiscono nel contribuente non la capacità di spendere, ma quella di guadagnare. Con la conseguenza che, se i redditi non vengono dichiarati o lo sono in modo irregolare, si dà luogo all’evasione fiscale. Ricordiamo incidentalmente che il nero in Italia è stimato nell’ordine del 24% del PIL; contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna. Solo il Portogallo ci supera con il 30%. (Dati Banca Mondiale).
Con le indirette, viceversa, è più facile bypassare i fenomeni di evasione o di elusione, in quanto il reddito viene inciso fiscalmente, non all’atto della sua produzione ed in relazione alla sua dichiarazione da parte del contribuente, ma quando emerge in sede di spesa, di trasferimenti o di investimenti economici.
3) Altro dato che vorrei rassegnare in questa sede è quello del residuo fiscale pro capite (equivalente a quanto, per abitante, rimane allo stato centrale del prelievo erariale nelle singole aree regionali, dedotto quanto lo Stato “spende” nelle regioni stesse).
Orbene, al proposito si riscontra che in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, (in grado minore Piemonte ed in Toscana) insomma in quasi tutta l’alta Italia, il saldo è largamente positivo a favore dello Stato. E sono queste le regioni ricche d’Italia.
In Lombardia è di 3.292 € per abitante, in Emilia Romagna di 2.643 €, in Veneto di 2.513, in Piemonte di 316, in Toscana di 180.
Nel resto del Paese il saldo è negativo: lo Stato quindi paga di più per ogni abitante di quanto percepisca di tasse. Ma è soprattutto l’evasione fiscale, maggiormente presente nelle regioni del Sud, a far la differenza. Una recente ricerca del centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia evidenzia come, a fronte di un certo allineamento tra Nord e Sud del Paese quanto a spesa delle famiglie e gettito IVA pro capite (corrispondente a quanto viene speso per abitante) c’è viceversa un gran divario quanto a gettito IRPEF, sempre pro capite.
La forbice infatti nel primo rapporto è rispettivamente del 60 e dell’80%; mentre nell’ultimo rapporto è del 180%; che significa quasi tre volte.
Da ciò si può legittimamente dedurre che nelle regioni del Sud si guadagna e si spende più o meno come al Nord (con uno scarto dipendente dal minor livello di reddito) ma non si dichiarano, in misura maggiore di quanto avvenga al Nord, i redditi percepiti.
Siamo in presenza, dunque, di una capacità fiscale pro capite diversa da regione a regione, per via della combinazione di due fattori: minor reddito e maggiore evasione.
Incidentalmente rilevo che i dati statistici dicono che il reddito delle regioni settentrionali è mediamente superiore del 35- 40% rispetto a quello delle regioni meridionali.
E’ questa la prima difficoltà sul percorso del federalismo fiscale.
Perchè è chiaro che lo stesso non può realizzarsi tout court attraverso la riserva integrale delle risorse fiscali alla regione nella quale le stesse si producono.
Si darebbe luogo ad una sperequazione evidente, contraria ai principi di solidarietà e di sussidiaretà, inammissibile in uno Stato moderno e progredito.
E d’altronde, come l’evoluzione del pensiero politico più illuminato testimonia, la perequazione non va realizzata attraverso la redistribuzione delle ricchezza attuata con lo strumento fiscale; bensì mediante il livellamento qualitativo dei servizi erogati a favore dei cittadini.
Se, dunque, perequare significa, non far diventare più ricche le regioni più povere, ma equiparare sul piano della fruizione dei servizi i cittadini delle seconde rispetto a quelli delle prime, abbiamo già un principio sul quale costruire un primo orientamento di federalismo fiscale. Le tasse, in altri termini non debbono servire per la perequazione della ricchezza fra i cittadini, ma per pagare i costi dello Stato. E la perequazione non dev’essere necessariamente assoluta, nel senso che nelle diverse regioni il livello di spesa pubblica pro capite deve essere eguale. La perequazione può e deve riferirsi solo alle spese relative ai diritti fondamentali, civili e sociali (esempio sanità, istruzione), e deve tener conto della differente capacità fiscale pro capite, nelle diverse aree regionali (perequazione imperfetta o incompleta).
A questo principio fanno seguito alcuni corollari che riassumono criteri di buona amministrazione moderna.
Primo principio: non si può pensare in alcune regioni di contrastare in tono minore l’evasione fiscale per il fatto che in quelle i cittadini godono di redditi minori.
Questo metodo, che suppone l’illegalità fiscale, oltre che essere iniquo nei confronti dei contribuenti dell’intero Paese, porta solo ad una progressiva accentuazione del divario tra ricchi e poveri nella medesima regione.
L’illegalità diffusa, sul piano fiscale, come anche in qualsiasi settore della vita sociale, è una delle condizioni più influenti sul proliferare dei fenomeni di malcostume e di malavita isolata o organizzata per il controllo del territorio.
Secondo: la trasparenza fiscale richiede che più che con lo strumento delle agevolazioni, degli sgravi, dei tagli delle esenzioni, si debba intervenire mediante incentivi rappresentati da contributi e finanziamenti. Sgravi, tagli di imposte e quant’altro non permettono di visualizzare la misura del beneficio riconosciuto al soggetto agevolato, tante volte neppure i soggetti stessi. Le imposte e le tasse si pagano per intero: a fianco e parallelamente può istituirsi un contributo pubblico ben qualificato, ed ottenibile a determinate condizioni.
Terzo: non si può pensare di equiparare le diverse regioni sul piano degli investimenti statali, sottraendo alle regioni che hanno maggiore capacità fiscale, i mezzi finanziari necessari agli investimenti strutturali ed infrastrutturali necessari alla loro crescita ed alla loro competitività.
Quarto principio: una regola generale da cui non deflettere è la buona norma di non distribuire opere pubbliche, appalti e cantieri a pioggia, come mezzo per far ricadere risorse economiche sul territorio, prescindendo da reali bisogni, (tanto che poi molte delle opere non vengono neppure realizzate).
Credo sia questa la luce più corretta nella quale cominciare a parlare di federalismo fiscale, inquadrando il ruolo della sussidiarietà. Sussidiarietà non solo verticale, dal pubblico al privato, dallo Stato al cittadino (secondo la teoria del telescopio cara a Pietro Giarda) ma orizzontale, tra enti ed istituzioni. Il principio di sussidiarietà e di adeguatezza che, in materia amministrativa deve improntare i rapporti tra i vari enti locali comporta che ad operare debba esser l’ente più adatto, nel senso di più efficace, secondo il criterio della maggior vicinanza al bisogno su cui intervenire. La sussidiarietà suppone a sua volta una maggiore autonomia degli enti locali, nel differenziare le politiche in relazione ai diversi bisogni locali, e la parallela maggiore responsabilizzazione degli stessi nella gestione delle risorse fiscali, (che implica una responsabilità, sia nella provvista delle risorse finanziarie sia nella destinazione delle stesse ai diversi bisogni).
Questo passaggio si ottiene attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo fiscale centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe essere, alla fine, affidato il compito di finanziare la spesa pubblica locale.
Ma, se ci deve essere aumento della capacità impositiva locale (a fronte di un aumento delle competenze istituzionali degli enti) questo aumento non può non essere accompagnato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione fiscale erariale.
Certamente non è federalismo ciò che ha fatto sinora lo Stato Italiano, che ha trasferito materie, competenze e funzioni agli enti locali, senza trasferire parallelamente agli stessi le relative risorse fiscali. Costringendo gli enti locali o a venir meno ai compiti istituzionali (come è avvenuto ad esempio nel settore dell’E.R.P. non più finanziata dai fondi GESCAL), oppure ad aumentare la pressione fiscale attraverso un aggravio dell’ICI, l’istituzione delle varie addizionali o delle tasse di scopo, l’introduzione dei ticket, il ricorso allo strumento del project financing per tutti i servizi tariffabili e via discorrendo.
Il discorso del federalismo istituzionale è complicato peraltro da due fattori.
Anzitutto nella Costituzione c’è un”area grigia”; non sono indicati infatti, nè le procedure, nè i soggetti che hanno il diritto di occuparsi delle diverse materie. Non è dunque chiaro chi abbia le competenza di decidere su materie i cui poteri sono ripartiti fra due o tre livelli di governo. E ciò si riverbera inevitabilmente sulle regole di finanziamento.
In secondo luogo l’autonomia locale ed il decentramento delle competenze e delle funzioni vanno conciliati con i problemi di un Paese che ha differenti livelli di reddito pro capite, tra regioni ricche e regioni povere e pure fra le stesse regioni ricche (tanto che qualcuno sostiene che il Paese non sia ancora preparato ad affrontare una compiuta riforma federalistica).
Se dunque, in attesa di una revisione complessiva del sistema istituzionale italiano (che chissà quando interverrà) dobbiamo, come cittadini, subire la politica del carciofo praticata dallo Stato italiano attraverso una progressiva riduzione di trasferimenti, di investimenti e spese dirette, di finanziamenti agli enti locali, è bene pensare ad un federalismo fiscale meno teorizzato e più pragmatistico. Basato sul principio che per ogni euro pagato in più dai contribuenti a Comuni, provincie, regioni, e a qualsiasi altro ente locale (comunità montane, consorzi di bonifica e quant’altro), se ne deve pagare uno in meno allo Stato.
Solo in questo modo si potrà pensare alla possibilità di quell’ampliamento della autonomia impositiva degli enti locali, che è condizione ineludibile perchè gli stessi possano assolvere pienamente al proprio ruolo.
Comunque, l’attuale sistema della finanza locale, non può neppure prestarsi, così com’è, ad una operazione di questo genere. Si avrebbero infatti degli effetti fortemente sperequati, perchè l’unica imposta in cui si configurano la capacità e la autonomia dell’ente locale, è l’ICI: appannaggio dei Comuni.
Una dilatazione di questa imposta, come qualcuno alla fine suggerisce, pur di venirne ad una con il federalismo fiscale, avrebbe come conseguenza quella di far pagare il costo dello stesso ad una sola categoria economica: quella dei proprietari immobiliari, in quanto possessori del bene-cespite (non già percettori del reddito, dato il suo carattere di patrimonialità). E poi, con i tagli a destra e a manca promessi o programmati, l’ICI non si sa più chi dovrà pagarla, ed in che misura.
In attesa dunque che si realizzi una compiuta riforma istituzionale che attui il federalismo in conformità alla Costituzione e quindi operi il riassetto della governance dello Stato e degli enti locali, se vogliamo evitare una asimmetria (dovuta alle due velocità che si registrano) tra il trasferimento delle materie, delle funzioni, delle competenze da un lato e la dotazione di una corrispondente adeguata autonomia impositiva in capo agli enti locali stessi d’altro lato, dobbiamo ragionare in termini elementari e concreti.
Aumentare dunque la capacità impositiva degli enti locali, ma realizzare nel contempo un maggior equilibrio tra capacità fiscale locale e prelievo locale. Credo si debbano prefigurare due livelli di intervento.
A livello regionale, occorre istituire la compartecipazione dell’ente regione alle imposte indirette erariali (anche per riequilibrare il rapporto sbilanciato che esiste fra le imposte statali).
Per quanto riguarda viceversa il livello comunale lo strumento della compartecipazione non è adatto a risolvere il problema del concorso dei city users nel finanziamento (in rapporto ai servizi goduti) del bilancio del comune nel cui territorio gli stessi esercitano l’attività lavorativa.
E’ chiaro infatti che la compartecipazione funziona a favore del Comune di residenza e non di quello in cui i cosiddetti pendolari producono il reddito lavorativo; consumandovi, nel contempo cinque o sei giorni su sette, i relativi servizi.
Occorre dunque (ma bisogna uscire dalla logica semplicistica della dilatazione dell’ICI perchè, in questo caso, il federalismo si farebbe con grave sperequazione, giova ripeterlo, a carico di una sola categoria di contribuenti) istituire una imposta comunale. Imposta che abbia la più larga base imponibile possibile, in termini di categorie e di contribuenti assoggettati. E quindi si riferisca a tutti i redditi lavorativi, prodotti nel territorio comunale, da residenti e da pendolari (imposta detraibile da quelle erariali, onde realizzare al tempo stesso l’indifferenza del contribuente ed il trasferimento della risorsa fiscale dallo Stato al Comune).
Degno di attenzione è il modello di federalismo fiscale concorrenziale, vigente in Svizzera.
Come illustrato l'anno scorso in Italia al Centro Svizzero di Milano,esso sostanzia un meccanismo virtuoso consistente nella realizzazione di una sorta di competitività del territorio sul piano fiscale.
Le diverse aree territoriali,presentando infatti ad abitanti ed operatori differenti offerte di trattamento fiscale ed,al tempo stesso,di livello dei servizi, sono in grado di esercitare, a seconda della qualità dell'offerta, un forte richiamo ai fini dell'insediamento di attività, funzioni e popolazione.
Il sistema peraltro reca in sè la spinta ad un concorso "emulativo" delle diverse Amministrazioni pubbliche nel migliorare i propri standard prestazionali.





ALLEGATI



IVA
Gettito pro capite regionalizzato




EMILIA ROMAGNA 2.140

VALLE D’AOSTA 2.000

LOMBARDIA 1.990

VENETO 1.970

PIEMONTE 1.870

TOSCANA 1.860

LIGURIA 1.850

TRENTINO-ALTO ADIGE 1.830

FRIULI-VENEZIA GIULIA 1.790

UMBRIA 1.670

MARCHE 1.650

LAZIO 1.550

ABRUZZO 1.450

MOLISE 1.330

SARDEGNA 1.300

BASILICATA 1.230

SICILIA 1.230

PUGLIA 1.180

CAMPANIA 1.160

CALABRIA 1.150

















IRPEF
Gettito pro capite regionalizzato




LOMBARDIA 3.720

EMILIA ROMAGNA 3.490

PIEMONTE 3.290

VALLE D’AOSTA 3.220

TRENTINO-ALTO ADIGE 3.200

FRIULI-VENEZIA GIULIA 3.190

LAZIO 3.150

LIGURIA 3.090

VENETO 3.000

TOSCANA 2.950

MARCHE 2.460

UMBRIA 2.460

ABRUZZO 1.927

SARDEGNA 1.740

MOLISE 1.540

PUGLIA 1.490

CAMPANIA 1.450

SICILIA 1.450

BASILICATA 1.390

CALABRIA 1.330













Spesa media familiare annua
dati regionalizzati





VENETO 37.220

EMILIA ROMAGNA 36.600

LOMBARDIA 34.200

TRENTINO-ALTO ADIGE 33.700

TOSCANA 32.800

VALLE D’AOSTA 31.900

MARCHE 31.800

UMBRIA 30.900

PIEMONTE 30.600

FRIULI-VENEZIA GIULIA 30.200

LIGURIA 27.900

ABRUZZO 27.800

LAZIO 27.600

SARDEGNA 25.800

MOLISE 25.100

BASILICATA 24.700

CAMPANIA 24.600

PUGLIA 24.200

SICILIA 23.700

CALABRIA 23.000






















- Le imposte dirette rispetto al PIL A)




- IRPEF 9,9 %

- IRES 2,1 %

- IRAP 2,4 %

- Altre dirette 0,7 %


































- Le imposte indirette rispetto al PIL B)





- IVA 5,9 %

- Imposta sugli oli minerali 1,7 %

- ICI 0,8 %

- Imposta sui tabacchi 0,6 %

- Ritenute sugli interessi e 0,49 %
sui redditi da capitale

- Imposte sul lotto e 0,4 %
le lotterie

- Imposta di registro 0,35 %

- Altre indirette 2,2 %



























- Le imposte indirette rispetto al prelievo fiscale (in migliaia) C)





- IVA 21,3 %

- Imposte sugli oli minerali 6 %

- ICI 2,8 %

- Imposta sui tabacchi 2,2 %

- Ritenute sugli interessi e 1,76 %
sui redditi da capitale

- Imposte sul lotto e sulle lotterie 1,4 %

- Imposta di registro 1,27 %

- Altre indirette 7,8 %




































- Le imposte dirette in rapporto al prelievo fiscale (in migliaia) D)



- IRPEF 36 %

- IRES 7,7 %

- IRAP 8,8 %

- Altre dirette 2,6 %







































Il nero - Economia sommersa - G)





- Portogallo 30 %

- Italia 24 %

- Spagna 21 %

- Germania 16 %

- Francia 14 %

- UK 12 %








Elaborazione Assoedilizia su dati Org. Internaz. del Lavoro – Banca Mondiale


















COMPOSIZIONE DEL PRELIEVO FISCALE SULLA CASA




 ICI 27,7 %

 IVA 17,6%

 IRPEF 16,2%

 Imposta di Registro 12,3%

 TARSU 11,4%

 Imposte ipocatastali 7,3%

 Imposte sull’energia elettrica 2.9%

 IRES 1,9%

 Imposta di successione 1,8%

 Altro 0,9%






ELABORAZIONE E STIME ASSOEDILIZIA SU VARI DATI




























COMPOSIZIONE DEL GETTITO ICI





Abitazioni principali 25,9%

Immobili strumentali: industriali, terziario-amministrativi,
supermercati, depositi per location, alberghi, cinema,
teatri, cliniche, grandi magazzini 25,1%

Immobili ad uso diverso dall’abitazione non strumentali:
negozi e magazzini, laboratori artigianali,
studi professionali e uffici 34,8%

Abitazioni locate }
Abitazioni secondarie } 9,4%

Aree fabbricabili 3,5%

Fondi agricoli 1,3%





ELABORAZIONE E STIME ASSOEDILIZIA SU VARI DATI





























REGIONE Residuo fiscale procapite (€)


Lombardia 3.360
Emilia Romagna 2.710
Veneto 2.615
Piemonte 330
Toscana 185
Marche 130
Abruzzo - 1.190
Lazio - 1.520
Campania - 2.110
Puglia - 2.290
Trentino Alto Adige - 2.310
Molise - 2.320
Liguria - 2.310
Umbria - 2.480
Friuli Venezia Giulia - 2.710
Sicilia - 2.970
Basilicata - 3.200
Sardegna - 3.290
Calabria - 3.510
Valle D’Aosta - 4.850






































DENSITA’ DI ALLOGGI
Abitazioni ogni 100 abitanti

1996
REGIONI ALLOGGI PER 100 ABITANTI

Liguria 57
Piemonte 54
Puglia 53
Sicilia 52
Calabria 51
Abruzzo 50
Emilia Romagna 47
Lombardia 46
Lazio 46
Toscana 44
Marche 44
Sardegna 44
Veneto 42
Campania 39


































DENSITA’ DI ALLOGGI
Abitazioni ogni 100 abitanti

2006
REGIONI ALLOGGI PER 100 ABITANTI

Valle D’Aosta 81
Liguria 61,5
Molise 59,3
Calabria 55,4
Piemonte 51
Sicilia 50,8
Abruzzo 50
Friuli 49,8
Trentino Alto Adige 49,7
Basilicata 48,7
Sardegna 48,4
Emilia Romagna 47
Toscana 46,6
Lazio 45,8
Puglia 45,3
Marche 44
Lombardia 43,7
Veneto 42,5
Umbria 42,5
Campania 37,9























Tabelle articolo Sole 24 Ore

Percentuale del gettito locale sul totale delle entrate tributarie

Stati a struttura federale
Germania 29%
Belgio 28%
USA 30%

Stati a struttura centralizzata
Francia 9%
Spagna 14%
Italia 5%

Modello Nordico
Danimarca 31%
Svezia 32%

Modello Britannico
Regno Unito (Galles, Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia) 8%


Spesa pubblica locale Grado di copertura della spesa locale con imposte locali
Francia 20% 45%
Italia 27% 18%
Spagna 34% 41%
Belgio 32% 88%
Danimarca 58% 53%
Germania 38% 76%
Olanda 29% --
Regno Unito 26% 30%
Svezia 38% 84%
USA 39% 77%
Elaborazione Assoedilizia su dati di OECD-Organisation for Co-operation and Development e di altre fonti – 2000/2002
















Tassazione Diretta e Indiretta nei Paesi Europei - Elaborazione Assoedilizia su dati Eurostat e Agenzia delle Entrate
Paese Imposte Dirette % PIL Imposte Indirette % PIL Sul totale % Dirette circa Sul Totale % Indirette circa

Austria 12,9 14,7 46 54

Belgio 17,8 13,9 58 42

Bulgaria 6,4 19 25 75

Cipro 10,2 17,2 37 63

Rep. Ceca 9,3 11,9 43 57

Danimarca 31,4 17,9 63 37

Estonia 7,1 13,5 34 66

Finlandia 17,9 14,1 55 45

Francia 11,9 15,8 42 58

Germania 10,3 12,1 45 65

Grecia 9,5 12,9 42 58

Ungheria 9,1 15,8 36 64

Irlanda 12,4 13,6 47 53

Italia 15,2 12,4 55,1 44,9

Lettonia 8 12,9 38 62

Lituania 9,1 11,5 44 56

Lussemburgo 14,1 13,4 51 49

Malta 12,1 16 43 57

Olanda 11,9 13,1 47 53

Polonia 7 13,9 33 67

Portogallo 8,6 15,3 35 65

Romania 5,3 13 29 71

Slovacchia 13 6,1 68 32

Slovenia 9,3 16,4 36 64

Spagna 11,4 12,5 47 53

Svezia 20,1 17,3 53 47

Regno Unito 16,8 13,3 55 45

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