_news #39
12 Ottobre 2007
Relazione del Presidente Avv. Achille Colombo Clerici al Convegno "Federalismo Fiscale"
Credo si debba preliminarmente delineare lo scenario di fondo nel quale va inquadrato il discorso del federalismo fiscale.
Permettetemi dunque di ricordare alcuni dati emersi dalle ricerche compiute dal Centro Studi della nostra organizzazione e pubblicati nel corso di quest’anno in varie riprese sul Sole 24 Ore. Dai dati emergono alcune anomalie di fondo del sistema Italia rispetto alla generalità degli altri Paesi europei;
1) Anzitutto il nostro Paese presenta un rapporto particolarmente squilibrato tra il prelievo fiscale locale e quello erariale.
E’ ben vero che una costante nell’impostazione fiscale dei paesi a struttura centralizzata è rappresentata da un maggior livello del prelievo centrale rispetto a quello locale. Ma la situazione italiana è di molto lontana da quella che si registra mediamente nel resto dell’Europa.
Il 95% dell’intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5% (la metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato direttamente dagli enti locali in virtù di una autonomia impositiva ufficialmente riconosciuta (per quanto riguarda sia la istituzione, sia la gestione delle imposte).
D’altra parte, la spesa pubblica sostenuta dagli enti locali raggiunge il 27% di quella complessiva: livello questo superiore di oltre il 50% rispetto a quello registrato sempre negli altri stati europei a struttura centralizzata.
Il nostro è dunque un sistema di finanza locale derivata, decisamente basato sul meccanismo dei trasferimenti, degli investimenti diretti, dei finanziamenti erogati dallo Stato centrale, e della compartecipazione alle imposte erariali.
2) Altra anomalia del sistema fiscale italiano rispetto a quelli del resto dell’Europa (anche questa oggetto di studio da parte di Assoedilizia) è il rapporto invertito, tra il gettito delle imposte dirette e quello delle imposte indirette.
Il primo supera l’altro del 20%; mentre in Francia è l’opposto: il secondo supera il primo di circa il 30%; in Germania di quasi il 50%; in Spagna del 15%; in Portogallo del 100%.
La questione non si riduce ad un mero rilievo statistico, ma presenta riflessi pratici di grande portata.
Semplificando concettualmente, possiamo dire che nelle imposte dirette rileva la capacità contributiva legata alla produzione, più che al consumo del reddito. Esse, in altri termini, colpiscono nel contribuente non la capacità di spendere, ma quella di guadagnare. Con la conseguenza che, se i redditi non vengono dichiarati o lo sono in modo irregolare, si dà luogo all’evasione fiscale. Ricordiamo incidentalmente che il nero in Italia è stimato nell’ordine del 24% del PIL; contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna. Solo il Portogallo ci supera con il 30%.
Con le indirette, viceversa, è più facile bypassare i fenomeni di evasione o di elusione, in quanto il reddito viene inciso fiscalmente, non all’atto della sua produzione ed in relazione alla sua dichiarazione da parte del contribuente, ma quando emerge in sede di spesa, di trasferimenti o di investimenti economici.
3) Altro dato che vorrei rassegnare in questa sede è quello del residuo fiscale pro capite (equivalente a quanto, per abitante, rimane allo stato centrale del prelievo erariale nelle singole aree regionali, dedotto quanto lo Stato “spende” nelle regioni stesse).
Orbene, al proposito si riscontra che in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, (in grado minore Piemonte ed in Toscana) insomma in quasi tutta l’alta Italia, il saldo è largamente positivo a favore dello Stato. E sono queste le regioni ricche d’Italia.
In Lombardia è di 3.292 € per abitante, in Emilia Romagna di 2.643 €, in Veneto di 2.513, in Piemonte di 316, in Toscana di 180.
Nel resto del Paese il saldo è negativo:  lo Stato quindi paga di più per ogni abitante di quanto percepisca di tasse.
Siamo in presenza, dunque, di una capacità fiscale pro capite diversa da regione a regione, per via della combinazione di due fattori: minor reddito e maggiore evasione.
Incidentalmente rilevo che i dati statistici dicono che il reddito delle regioni settentrionali è mediamente superiore del 35- 40% rispetto a quello delle regioni meridionali.
E’ questa la prima difficoltà sul percorso del federalismo fiscale.
Perchè è chiaro che lo stesso non può realizzarsi tout court attraverso la riserva integrale delle risorse fiscali alla regione nella quale le stesse si producono.
Si darebbe luogo ad una sperequazione evidente, contraria ai principi di solidarietà e di sussidiaretà, inammissibile in uno Stato moderno e progredito.
E d’altronde, come l’evoluzione del pensiero politico più illuminato testimonia, la perequazione non va realizzata attraverso la redistribuzione delle ricchezza attuata con lo strumento fiscale; bensì mediante il livellamento qualitativo dei servizi erogati a favore dei cittadini.
Se, dunque, perequare significa, non far diventare più ricche le regioni più povere, ma equiparare sul piano della fruizione dei servizi i cittadini delle seconde rispetto a quelli delle prime, abbiamo già un principio sul quale costruire un primo orientamento di federalismo fiscale. Le tasse, in altri termini non debbono servire per la perequazione della ricchezza fra i cittadini, ma per pagare i costi dello Stato. E la perequazione non dev’essere necessariamente assoluta, nel senso che nelle diverse regioni il livello di spesa pubblica pro capite deve essere eguale. La perequazione può e deve riferirsi solo alle spese relative ai diritti fondamentali, civili e sociali (esempio sanita, istruzione), e deve tener conto della differente capacità fiscale pro capite, nelle diverse aree regionali (perequazione imperfetta o incompleta).
A questo principio fanno seguito alcuni corollari che riassumono criteri di buona amministrazione moderna.
Primo principio: non si può pensare in alcune regioni di contrastare in tono minore l’evasione fiscale per il fatto che in quelle i cittadini godono di redditi minori.
Questo metodo, che suppone l’illegalità fiscale, oltre che essere iniquo nei confronti dei contribuenti dell’intero Paese, porta solo ad una progressiva accentuazione del divario tra ricchi e poveri nella medesima regione.
L’illegalità diffusa, sul piano fiscale, come anche in qualsiasi settore della vita sociale, è una delle condizioni più influenti sul proliferare dei fenomeni di malcostume e di malavita isolata o organizzata per il controllo del territorio.
Secondo: la trasparenza fiscale richiede che più che con lo strumento delle agevolazioni, degli sgravi, dei tagli delle esenzioni, si debba intervenire mediante incentivi rappresentati da contributi e finanziamenti. Sgravi, tagli di imposte e quant’altro non permettono di visualizzare la misura del beneficio riconosciuto al soggetto agevolato, tante volte neppure i soggetti stessi. Le imposte e le tasse si pagano per intero: a fianco e parallelamente può istituirsi un contributo pubblico ben qualificato, ed ottenibile a determinate condizioni.
Terzo: non si può pensare di equiparare le diverse regioni sul piano degli investimenti statali, sottraendo alle regioni che hanno maggiore capacità fiscale, i mezzi finanziari necessari agli investimenti strutturali ed infrastrutturali necessari alla loro crescita ed alla loro competitività.
Quarto principio: una regola generale da cui non deflettere è la buona norma di non distribuire opere pubbliche, appaleti e cantieri a pioggia, come mezzo per far ricadere risorse economiche sul territorio, prescindendo da reali bisogni, (tanto che poi molte delle opere non vengono neppure realizzate).
Credo sia questa la luce più corretta nella quale cominciare a parlare di federalismo fiscale, inquadrando il ruolo della sussidiarietà. Sussidiarietà non solo verticale, dal pubblico al privato, dallo Stato al cittadino (secondo la teoria del telescopio cara a Pietro Giarda) ma orizzontale, tra enti ed istituzioni. Il principio di sussidiarietà e di adeguatezza che, in materia amministrativa deve improntare i rapporti tra i vari enti locali comporta che ad operare debba esser l’ente più adatto, nel senso di più efficace, secondo il criterio della maggior vicinanza al bisogno su cui intervenire. La sussidiarietà suppone a sua volta una maggiore autonomia degli enti locali, nel differenziare le politiche in relazione ai diversi bisogni locali, e la parallela maggiore responsabilizzazione degli stessi nella gestione delle risorse fiscali, (che implica una responsabilità, sia nella provvista delle risorse finanziarie sia nella destinazione delle stesse ai diversi bisogni).
Questo passaggio si ottiene attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo fiscale centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe essere, alla fine, affidato il compito di finanziare la spesa pubblica locale.
Ma, se ci deve essere aumento della capacità impositiva locale (a fronte di un aumento delle competenze istituzionali degli enti) questo aumento non può non essere accompagnato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione fiscale erariale.
Certamente non è federalismo ciò  che ha fatto sinora lo Stato Italiano, che ha trasferito materie, competenze e funzioni agli enti locali, senza trasferire parallelamente agli stessi le relative risorse fiscali. Costringendo gli enti locali o a venir meno ai compiti istituzionali (come è avvenuto ad esempio nel settore dell’E.R.P. non più finanziata dai fondi GESCAL), oppure ad aumentare la pressione fiscale attraverso un aggravio dell’ICI, l’istituzione delle varie addizionali o delle tasse di scopo, l’introduzione dei ticket, il ricorso allo strumento del project financing per tutti i servizi tariffabili e via discorrendo.
Il discorso del federalismo istituzionale è complicato peraltro da due fattori.
Anzitutto nella Costituzione c’è un”area grigia”; non sono indicati infatti, nè le procedure, nè i soggetti che hanno il diritto di occuparsi delle diverse materie. Non è dunque chiaro chi abbia le competenza di decidere su materie i cui poteri sono ripartiti fra due o tre livelli di governo. E ciò si riverbera inevitabilmente sulle regole di finanziamento.
In secondo luogo l’autonomia locale ed il decentramento delle competenze e delle funzioni vanno conciliati con i problemi di un Paese che ha differenti livelli di reddito pro capite, tra regioni ricche e regioni povere e pure fra le stesse regioni ricche  (tanto che qualcuno sostiene che il Paese non sia ancora preparato ad affrontare una compiuta riforma federalistica).
Se dunque, in attesa di una revisione complessiva del sistema istituzionale italiano (che chissà quando interverrà) dobbiamo, come cittadini, subire la politica del carciofo praticata dallo Stato italiano attraverso una progressiva riduzione di trasferimenti, di investimenti e spese dirette, di finanziamenti agli enti locali, è bene pensare ad un federalismo fiscale meno teorizzato e più pragmatistico. Basato sul principio che per ogni euro pagato in più dai contribuenti a Comuni, provincie, regioni, e a qualsiasi altro ente locale (comunità montane, consorzi di bonifica e quant’altro), se ne deve pagare uno in meno allo Stato.
Solo in questo modo si potrà pensare alla possibilità di quell’ampliamento della autonomia impositiva degli enti locali, che è condizione ineludibile perchè gli stessi possano assolvere pienamente al proprio ruolo.
Comunque, l’attuale sistema della finanza locale, non può neppure prestarsi, così com’è, ad una operazione di questo genere. Si avrebbero infatti degli effetti fortemente sperequati, perchè l’unica imposta in cui si configurano la capacità e la autonomia dell’ente locale, è l’ICI: appannaggio dei Comuni.
Una dilatazione di questa imposta, come qualcuno alla fine suggerisce, pur di venirne ad una con il federalismo fiscale, avrebbe come conseguenza quella di far pagare il costo dello stesso ad una sola categoria economica: quella dei proprietari immobiliari, in quanto possessori del bene-cespite (non già percettori del reddito, dato il suo carattere di patrimonialità). E poi, con i tagli a destra e a manca promessi o programmati, l’ICI non si sa più chi dovrà pagarla, ed in che misura.
In attesa dunque che si realizzi una compiuta riforma istituzionale che attui il federalismo in conformità alla Costituzione e quindi operi il riassetto della governance dello Stato e degli enti locali, se vogliamo evitare una asimmetria (dovuta alle due velocità che si registrano) tra il trasferimento delle materie, delle funzioni, delle competenze da un lato e la dotazione di una corrispondente adeguata autonomia impositiva in capo agli enti locali stessi d’altro lato, dobbiamo ragionare in termini elementari e concreti.
Aumentare si la capacità impositiva degli enti locali, ma realizzare nel contempo un maggior equilibrio tra capacità fiscale locale e prelievo locale. Credo si debbano prefigurare due livelli di intervento.
A livello regionale, occorre istituire la compartecipazione dell’ente regione alle imposte indirette erariali (anche per riequilibrare il rapporto sbilanciato che esiste fra le imposte statali).  
Per quanto riguarda viceversa il livello comunale lo strumento della compartecipazione non è adatto a risolvere il problema del concorso dei city users nel finanziamento (in rapporto ai servizi goduti) del bilancio del comune nel cui territorio gli stessi esercitano l’attività lavorativa.
E’ chiaro infatti che la compartecipazione funziona a favore del Comune di residenza e non di quello in cui i cosiddetti pendolari producono il reddito lavorativo; consumandovi, nel contempo cinque o sei giorni su sette, i relativi servizi.
Occorre dunque (ma bisogna uscire dalla logica semplicistica della dilatazione dell’ICI perchè, in questo caso, il federalismo si farebbe giova ripeterlo a carico di una sola categoria di contribuenti) istituire una imposta comunale. Imposta che abbia la più larga base imponibile possibile, in termini di categorie e di contribuenti assoggettati. E quindi si riferisca a tutti i redditi lavorativi, prodotti nel territorio comunale, da residenti e da pendolari (imposta detraibile da quelle erariali, onde realizzare al tempo stesso l’indifferenza del contribuente ed il  trasferimento della risorsa fiscale dallo Stato al Comune. Ca va sans dire).
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